Le continue violazioni del nostro Parlamento all'articolo 11 della Costituzione impongono una riflessione ampia ed articolata sul concetto stesso di legge fondante.
Che senso ha avere un sistema giuridico e legislativo basato su dei principi, se poi, immancabilmente, questi vengono violati o adattati alle esigenze del momento? E' sinonimo di debolezza e di parzialità e, su molte questioni, pregiudica la credibilità della nazione agli occhi del mondo.
Nello specifico dell'articolo 11, esso cita:
"L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali;.."
L'uso del termine "ripudia" è un forte marcatore morale dello sdegno di un paese che ha vissuto la guerra sulla sua pelle e ne ha subito le disastrose conseguenze. E' un'affermazione della contrarietà all'imperialismo e al nazionalismo, in favore di uno stato moderno e democratico. Non è tuttavia una dichiarazione esplicita di neutralità rispetto alle controversie internazionali, ma ne identifica un aspetto fondante nella relazione internazionale, ovvero il ripudio dell'uso delle armi se coinvolta.
Modernità e altruismo, pacifismo e diplomazia, con cosa stridono?
Con 25 missioni internazionali in corso (Il sole 24 ore) e
15 miliardi di euro di investimento solo nel 2012 per l'acquisto di 131 cacciabombardieri F35, aeromobile per attacco rapido e sovradimensionato per la difesa dei cieli.
Migliaia di giovani uomini e donne impegnati in missioni di guerra, dall'esito incerto, che molti non potranno raccontare.
E ancora...
"consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo."
E' veramente in questo passaggio che si concentra lo spirito illuminato dell'azione costituente. In poche parole, la Repubblica Italiana si dimostra disponibile ad autolimitare la propria sovranità, in favore di istituzioni sovranazionali che ne perseguano gli stessi scopi, ovvero una integrazione sempre maggiore tra i popoli per il superamento degli interessi dei singoli in favore di quelli comuni.
Superamento degli interessi dei singoli...passi indietro e limitazioni alla propria sovranità in favore del dialogo internazionale...sostegno alle organizzazioni che sostengono il dialogo: un messaggio di pace e di dialogo importante.
Da riscoprire e rendere centrale.
Diario di un pendolare
Frammenti quotidiani di vita e pensieri...tra un diretto e un regionale
lunedì 9 settembre 2013
venerdì 6 settembre 2013
Si...può...fareeee?
Non mi sento rappresentato da nessun partito attualmente sulla scena politica del Paese, né mi sento completamente lontano da nessuno, almeno considerando i manifesti politici.
Indipendentemente da come le linee guida vengano o meno messe in atto, trovo del buono in ciascuna proposta e credo fermamente che ci siano ottimi spunti da coltivare e far progredire nella maggior parte di essi.
Partendo dal presupposto che non esiste più la destra, così come l’abbiamo sempre concepita, che non esiste più la sinistra, così come l’abbiamo sempre concepita, e che non esiste più il centro, così come l’abbiamo sempre concepito, posso azzardarmi a dire che il parlamento potrebbe essere circolare, senza soluzione di continuità.
È una buona metafora visiva, quella del cerchio che non ha inizio e che non ha fine, per significare che ormai le ideologie politiche migrano in continuazione e si fondono l’una nell’altra, creandone una informe in cui difficilmente si trovano principi “di settore”.
Forse è per questo che non mi sento rappresentato e ho sempre difficoltà quando entro nella cabina per votare.
Mi ritengo un attivista del partito della coscienza, ovvero un acceso sostenitore della” politica della coscienza”, una politica in cui vengono fatte delle scelte , secondo coscienza, e in cui gli eletti rappresentati di tale movimento agiscono rispondendo direttamente alla propria coscienza.
Fare i conti con la propria coscienza, conviverci ogni giorno quando ci si guarda allo specchio, è un obbligo morale sicuramente più complesso da infrangere rispetto al patto con l’elettore, anche se esistono comunque persone che non hanno né coscienza né morale, e che agiscono esclusivamente nel proprio interesse.
Ecco…se ci fosse un partito della coscienza, la tessera me la farei, e se ci fossero candidati del partito della coscienza, non mi farei più problemi in cabina.
Magari mi candiderei anche.
In un'epoca in cui, i soliti noti provano a far risorgere "Forza Italia" dalle ceneri di una prima Repubblica sempre attuale, e in cui il presunto partito di maggioranza con le sue mille correnti e spaccature interne organizza la sua "festa della fragile Unità", magari siamo ancora in tempo a fondare un “partito della coscienza” e a riformare questo sistema avvilente e umiliante.
O almeno potremmo provarci...così almeno noi, di fronte alle nostre di coscienze, potremmo dire di avercela messa tutta...SI...PUO'..FARE?
Indipendentemente da come le linee guida vengano o meno messe in atto, trovo del buono in ciascuna proposta e credo fermamente che ci siano ottimi spunti da coltivare e far progredire nella maggior parte di essi.
Partendo dal presupposto che non esiste più la destra, così come l’abbiamo sempre concepita, che non esiste più la sinistra, così come l’abbiamo sempre concepita, e che non esiste più il centro, così come l’abbiamo sempre concepito, posso azzardarmi a dire che il parlamento potrebbe essere circolare, senza soluzione di continuità.
È una buona metafora visiva, quella del cerchio che non ha inizio e che non ha fine, per significare che ormai le ideologie politiche migrano in continuazione e si fondono l’una nell’altra, creandone una informe in cui difficilmente si trovano principi “di settore”.
Forse è per questo che non mi sento rappresentato e ho sempre difficoltà quando entro nella cabina per votare.
Mi ritengo un attivista del partito della coscienza, ovvero un acceso sostenitore della” politica della coscienza”, una politica in cui vengono fatte delle scelte , secondo coscienza, e in cui gli eletti rappresentati di tale movimento agiscono rispondendo direttamente alla propria coscienza.
Fare i conti con la propria coscienza, conviverci ogni giorno quando ci si guarda allo specchio, è un obbligo morale sicuramente più complesso da infrangere rispetto al patto con l’elettore, anche se esistono comunque persone che non hanno né coscienza né morale, e che agiscono esclusivamente nel proprio interesse.
Ecco…se ci fosse un partito della coscienza, la tessera me la farei, e se ci fossero candidati del partito della coscienza, non mi farei più problemi in cabina.
Magari mi candiderei anche.
In un'epoca in cui, i soliti noti provano a far risorgere "Forza Italia" dalle ceneri di una prima Repubblica sempre attuale, e in cui il presunto partito di maggioranza con le sue mille correnti e spaccature interne organizza la sua "festa della fragile Unità", magari siamo ancora in tempo a fondare un “partito della coscienza” e a riformare questo sistema avvilente e umiliante.
O almeno potremmo provarci...così almeno noi, di fronte alle nostre di coscienze, potremmo dire di avercela messa tutta...SI...PUO'..FARE?
martedì 7 maggio 2013
Auschwitz: ero il numero 220543
Un sottotitolo calzante per questo libro sarebbe potuto essere: “Il racconto di chi ha visto con i propri occhi la vergogna del mondo”.
Così definirei, in estrema sintesi, il racconto meraviglioso della drammatica esperienza di Denis Avey, caporale dell’esercito britannico catturato dai tedeschi durante la campagna africana e deportato nel campo di lavoro di Auschwitz nel 1944.
Definire meravigliosa la narrazione di un periodo oscuro della vita di un uomo potrà sembrare azzardato, a tratti offensivo della memoria di quanti non sono sopravvissuti, ma non trovo altri aggettivi per descrivere la dovizia di particolari e l’analisi lucida, a sessant’anni di distanza, di una persona che ce l’ha fatta, grazie alle sue doti di adattamento, allo spirito di rivalsa e coraggio che non l’hanno mai abbandonato e grazie a, come lui stesso dice, una grande dose di fortuna e tempismo.
Un uomo che, volontariamente, per testimoniare al mondo lo scempio e la violenza di Auschwitz, decise di sostituirsi ad un deportato ebreo e vedere con i propri occhi ciò che stava accadendo realmente.
Nell’Europa della Grande Guerra nessuno sapeva, o forse faceva finta di non sapere, quanto accadeva all’interno di quel nefasto cancello. La scritta “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi) sul cancello d’ingresso del campo ricordava in maniera beffarda, quotidianamente, il triste destino di quanti vi transitavano sotto, a cadenza regolare, mattino e sera. Questo solo per i più fortunati, ovvero per quelli che sopravvivevano alla giornata e a cui il fato concedeva un’altra notte al freddo su un tavolaccio spoglio.
Sono rimasto colpito da come questa storia sia rimasta nell’angolo più remoto del cervello e del cuore di Denis per sessant’anni, e dalla forza con cui sia esplosa, in un racconto concitato, estremamente tragico nel suo ritmo, preciso e puntuale nei dettagli e nelle connessioni storiche e geografiche.
Ancora nel 2013, i carnefici vengono assicurati alla giustizia, ancora nel 2013 i pochi superstiti fanno i conti con una soddisfazione che tarda ad arrivare, ancora nel 2013 ci sono degli sciocchi che negano quel periodo e fanno del “revisionismo” una contraddizione prima di tutto morale.
Denis Avey, alla veneranda età di 90 anni, ci riporta ad Auschwitz e ci fa rivivere quel periodo. Grazie alla sua memoria, abbiamo una testimonianza tangibile ed una responsabilità importante ci viene conferita.
Quando anche l’ultimo dei superstiti avrà trovato la pace, è nostro compito far si che, per sempre, di generazione in generazione, venga tramandato quanto accaduto.
È nostro compito trarre degli insegnamenti da Denis (e dai tanti altri nel corso della storia..Primo Levi, Shlomo Venezia solo per citarne alcuni), lezioni di coraggio, giustizia, amore verso il prossimo, imprimerle profondamente nella nostra memoria e tradurle, di valore in valore, nel nostro vivere quotidiano.
In ricordo di quanti non ce l’hanno fatta…
"Le guerre negano la memoria dissuadendoci dall’indagare sulle loro radici, finchè non si è spenta la voce di chi può raccontarle. Allora ritornano, con un altro nome e un altro volto, a distruggere quel poco che avevano risparmiato." (L’ombra del vento – Carlos Ruiz Zafón )
Così definirei, in estrema sintesi, il racconto meraviglioso della drammatica esperienza di Denis Avey, caporale dell’esercito britannico catturato dai tedeschi durante la campagna africana e deportato nel campo di lavoro di Auschwitz nel 1944.
Definire meravigliosa la narrazione di un periodo oscuro della vita di un uomo potrà sembrare azzardato, a tratti offensivo della memoria di quanti non sono sopravvissuti, ma non trovo altri aggettivi per descrivere la dovizia di particolari e l’analisi lucida, a sessant’anni di distanza, di una persona che ce l’ha fatta, grazie alle sue doti di adattamento, allo spirito di rivalsa e coraggio che non l’hanno mai abbandonato e grazie a, come lui stesso dice, una grande dose di fortuna e tempismo.
Un uomo che, volontariamente, per testimoniare al mondo lo scempio e la violenza di Auschwitz, decise di sostituirsi ad un deportato ebreo e vedere con i propri occhi ciò che stava accadendo realmente.
Nell’Europa della Grande Guerra nessuno sapeva, o forse faceva finta di non sapere, quanto accadeva all’interno di quel nefasto cancello. La scritta “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi) sul cancello d’ingresso del campo ricordava in maniera beffarda, quotidianamente, il triste destino di quanti vi transitavano sotto, a cadenza regolare, mattino e sera. Questo solo per i più fortunati, ovvero per quelli che sopravvivevano alla giornata e a cui il fato concedeva un’altra notte al freddo su un tavolaccio spoglio.
Sono rimasto colpito da come questa storia sia rimasta nell’angolo più remoto del cervello e del cuore di Denis per sessant’anni, e dalla forza con cui sia esplosa, in un racconto concitato, estremamente tragico nel suo ritmo, preciso e puntuale nei dettagli e nelle connessioni storiche e geografiche.
Ancora nel 2013, i carnefici vengono assicurati alla giustizia, ancora nel 2013 i pochi superstiti fanno i conti con una soddisfazione che tarda ad arrivare, ancora nel 2013 ci sono degli sciocchi che negano quel periodo e fanno del “revisionismo” una contraddizione prima di tutto morale.
Denis Avey, alla veneranda età di 90 anni, ci riporta ad Auschwitz e ci fa rivivere quel periodo. Grazie alla sua memoria, abbiamo una testimonianza tangibile ed una responsabilità importante ci viene conferita.
Quando anche l’ultimo dei superstiti avrà trovato la pace, è nostro compito far si che, per sempre, di generazione in generazione, venga tramandato quanto accaduto.
È nostro compito trarre degli insegnamenti da Denis (e dai tanti altri nel corso della storia..Primo Levi, Shlomo Venezia solo per citarne alcuni), lezioni di coraggio, giustizia, amore verso il prossimo, imprimerle profondamente nella nostra memoria e tradurle, di valore in valore, nel nostro vivere quotidiano.
In ricordo di quanti non ce l’hanno fatta…
"Le guerre negano la memoria dissuadendoci dall’indagare sulle loro radici, finchè non si è spenta la voce di chi può raccontarle. Allora ritornano, con un altro nome e un altro volto, a distruggere quel poco che avevano risparmiato." (L’ombra del vento – Carlos Ruiz Zafón )
lunedì 6 maggio 2013
Città smart o amministratori illuminati?
Il fenomeno delle smart cities sta esplodendo. Se ne parla sempre di più, anche in contesti differenti, e cominciano a sorgere i primi esperimenti anche in Italia, finanziati da fonti straniere pubbliche/private e da piani operativi nazionali che presuppongono, quindi, una strategia in evoluzione.
Estremamente interessante e molto sfidante.
Ma cos’è realmente? Un città intelligente (smart city) indica, in senso lato, un ambiente urbano in grado di agire attivamente per migliorare la qualità della vita dei propri cittadini. Riesce a conciliare e soddisfare le esigenze dei cittadini, delle imprese e delle istituzioni, grazie anche all'impiego diffuso e innovativo delle TIC, in particolare nei campi della comunicazione, della mobilità, dell'ambiente e dell'efficienza energetica.
Secondo la definizione di wikipedia quindi, una smart city è fondamentalmente un ambiente attivo, articolato, interconnesso, in cui ciascuna componente contribuisce alla riconfigurazione in real time delle altre, che compongono il sistema.
Parole illuminanti e profonde per chi riesce a coglierne le sfumature meno evidenti. La città diventa un soggetto attivo, le strade, i palazzi che la compongono, i pali della luce, i tombini, i cestini per la raccolta dei rifiuti, tutta una serie di oggetti, apparentemente statici ed isolati, diventano sensori e rete di rilevamento.
Anche l’uomo ne fa parte. Sempre più digitale e connesso, qualunque informazione esso renda pubblica (dati sul traffico, affollamento dei mezzi pubblici, ritardi…) viene messa a fattor comune a beneficio degli altri che, per esempio, vedono riconfigurato in automatico il proprio navigatore satellitare sulla base delle informazioni condivise (traffico, semafori, condizioni stradali…). Ogni oggetto, animato o inanimato, contribuisce a migliorare la vivibilità e la sostenibilità del sistema complessivo.
Entusiasmante no? Dal mio punto di vista assolutamente si, entusiasmante e stimolante, di ampio respiro e fonte di ispirazione e studio. Michele Vianello affronta il tema da un punto di vista spesso trascurato. Nel suo Smart Cities, l’autore è tra i pochi ad esporre una metodologia di Governo dell’innovazione da destinare alle Amministrazioni e alle imprese che dall’innovazione traggono il proprio business. Il vero fulcro della questione, la leva che farà si che il fenomeno da mera accademia diventi realtà: la lungimiranza di chi governa il territorio.
Le amministrazioni pubbliche, di vari ordini e gradi, hanno una responsabilità centrale nel processo di “smartizzazione” delle proprie città. Sono le amministrazioni a dover impostare in chiave strategica il rinnovamento dei servizi, delle politiche del territorio, della collaborazione tra soggetti, sono loro insomma a dover adottare un modello di governance, attuale, rispetto ad un modello di amministrazione, ormai superato e vincolante.
L’"amministratore illuminato” è la chiave di volta per la diffusione delle smart cities, ed un processo di alfabetizzazione digitale, così come descritto dall’autore, è assolutamente fondamentale in questo processo, ancor più della banda larga e dell’automazione dei servizi.
Parlare quindi di smart cities non può quindi prescindere dal parlare di smart city manager, figura sempre più tecnica, specializzata, mentalmente avanzata, e sempre meno politicamente accattivante.
Insomma, un futuro smart presuppone una classe politica smart, senza la quale difficilmente il sogno diventerà realtà.
Estremamente interessante e molto sfidante.
Ma cos’è realmente? Un città intelligente (smart city) indica, in senso lato, un ambiente urbano in grado di agire attivamente per migliorare la qualità della vita dei propri cittadini. Riesce a conciliare e soddisfare le esigenze dei cittadini, delle imprese e delle istituzioni, grazie anche all'impiego diffuso e innovativo delle TIC, in particolare nei campi della comunicazione, della mobilità, dell'ambiente e dell'efficienza energetica.
Secondo la definizione di wikipedia quindi, una smart city è fondamentalmente un ambiente attivo, articolato, interconnesso, in cui ciascuna componente contribuisce alla riconfigurazione in real time delle altre, che compongono il sistema.
Parole illuminanti e profonde per chi riesce a coglierne le sfumature meno evidenti. La città diventa un soggetto attivo, le strade, i palazzi che la compongono, i pali della luce, i tombini, i cestini per la raccolta dei rifiuti, tutta una serie di oggetti, apparentemente statici ed isolati, diventano sensori e rete di rilevamento.
Anche l’uomo ne fa parte. Sempre più digitale e connesso, qualunque informazione esso renda pubblica (dati sul traffico, affollamento dei mezzi pubblici, ritardi…) viene messa a fattor comune a beneficio degli altri che, per esempio, vedono riconfigurato in automatico il proprio navigatore satellitare sulla base delle informazioni condivise (traffico, semafori, condizioni stradali…). Ogni oggetto, animato o inanimato, contribuisce a migliorare la vivibilità e la sostenibilità del sistema complessivo.
Entusiasmante no? Dal mio punto di vista assolutamente si, entusiasmante e stimolante, di ampio respiro e fonte di ispirazione e studio. Michele Vianello affronta il tema da un punto di vista spesso trascurato. Nel suo Smart Cities, l’autore è tra i pochi ad esporre una metodologia di Governo dell’innovazione da destinare alle Amministrazioni e alle imprese che dall’innovazione traggono il proprio business. Il vero fulcro della questione, la leva che farà si che il fenomeno da mera accademia diventi realtà: la lungimiranza di chi governa il territorio.
Le amministrazioni pubbliche, di vari ordini e gradi, hanno una responsabilità centrale nel processo di “smartizzazione” delle proprie città. Sono le amministrazioni a dover impostare in chiave strategica il rinnovamento dei servizi, delle politiche del territorio, della collaborazione tra soggetti, sono loro insomma a dover adottare un modello di governance, attuale, rispetto ad un modello di amministrazione, ormai superato e vincolante.
L’"amministratore illuminato” è la chiave di volta per la diffusione delle smart cities, ed un processo di alfabetizzazione digitale, così come descritto dall’autore, è assolutamente fondamentale in questo processo, ancor più della banda larga e dell’automazione dei servizi.
Parlare quindi di smart cities non può quindi prescindere dal parlare di smart city manager, figura sempre più tecnica, specializzata, mentalmente avanzata, e sempre meno politicamente accattivante.
Insomma, un futuro smart presuppone una classe politica smart, senza la quale difficilmente il sogno diventerà realtà.
giovedì 2 maggio 2013
Cambiamo nome al primo maggio!
Con il 1° maggio ormai archiviato dal 2° maggio, e con esso le varie manifestazioni che si sono svolte a livello nazionale e le relative polemiche che tutti gli anni si ripetono puntuali, stavo ragionando sulle motivazioni e sull’opportunità di questo evento, ahinoi ormai più ludico e mediatico che reale e significativo.
In un paese, l’Italia, in cui la disoccupazione (soprattutto giovanile) ha toccato percentuali incredibili , già mi sembra una bella contraddizione festeggiare qualcosa che per molti è un sogno, una chimera, un percorso ad ostacoli in cui difficilmente si vedrà il traguardo, a maggior ragione se ci si documenta rapidamente sulle origini di questo evento. Storicamente, infatti, questa festa è di per sé contradditoria.
Leggendo su wikipedia mi è venuto un po’ da ridere. Quello che da sempre, per antonomasia, è considerata la festa dei lavoratori, quindi di una classe popolare e operai oppressa dal vile capitalista, nasce in realtà ad opera del “Nobile e Sacro Ordine dei Cavalieri del Lavoro”, una sorta di massoneria americana che rifiutava gli ideali del socialismo e promuoveva quelli repubblicani americani.
A tale gruppo, si accedeva soltanto attraverso un’accurata selezione elitaria e riti di iniziazione che ne facevano un ordine segreto di rango elevato, scarsamente rappresentativo. Solo le crisi economiche devastanti, e le pressioni violente da parte delle congregazioni di minatori all’epoca molto attive, fecero si che le parole “Nobile e sacro” fossero cancellate dall’organizzazione, così come i riti di iniziazione, che permisero un allargamento forte della base e un’enfasi sempre maggiore dello “sciopero di piazza” a fronte del “dialogo di lobby”.
La scelta del primo maggio aveva l’obiettivo di ricordare un evento simbolico forte e segnante, ovvero l’impiccagione di quattro operai, quattro organizzatori sindacali e quattro anarchici che il primo maggio del 1886 a Chicago organizzarono uno sciopero che sfociò nell’omicidio, da parte della polizia, di due manifestanti.
Il primo maggio è quindi un avvenimento che celebra un omicidio, avvenuto in occasione di uno sciopero, organizzato da una loggia massonica. Se aggiungiamo che, ad oggi, si festeggia qualcosa che non c’è (o meglio, che non per tutti è un diritto) e una violazione perenne all’art. 1 della Costituzione, mi domando se i sindacati debbano forse rivedere tutto l’impianto.
Si potrebbe partire dal nome…perché festa del lavoro e non festa di quelli che il lavoro lo cercano? Perché non festa di chi ci crede ancora? Perché festeggiare il lavoro e non i lavoratori..così a Piazza San Giovanni ci si entra meglio?
A pensarci bene…ora capisco le origini! L’ordine che diede inizio a tutti era elitario perché raccoglieva quelli che il lavoro ce l’avevano, quindi quei pochi fortunati! Ecco spiegato tutto! C’avevano ragione…era stato tutto previsto…
In un paese, l’Italia, in cui la disoccupazione (soprattutto giovanile) ha toccato percentuali incredibili , già mi sembra una bella contraddizione festeggiare qualcosa che per molti è un sogno, una chimera, un percorso ad ostacoli in cui difficilmente si vedrà il traguardo, a maggior ragione se ci si documenta rapidamente sulle origini di questo evento. Storicamente, infatti, questa festa è di per sé contradditoria.
Leggendo su wikipedia mi è venuto un po’ da ridere. Quello che da sempre, per antonomasia, è considerata la festa dei lavoratori, quindi di una classe popolare e operai oppressa dal vile capitalista, nasce in realtà ad opera del “Nobile e Sacro Ordine dei Cavalieri del Lavoro”, una sorta di massoneria americana che rifiutava gli ideali del socialismo e promuoveva quelli repubblicani americani.
A tale gruppo, si accedeva soltanto attraverso un’accurata selezione elitaria e riti di iniziazione che ne facevano un ordine segreto di rango elevato, scarsamente rappresentativo. Solo le crisi economiche devastanti, e le pressioni violente da parte delle congregazioni di minatori all’epoca molto attive, fecero si che le parole “Nobile e sacro” fossero cancellate dall’organizzazione, così come i riti di iniziazione, che permisero un allargamento forte della base e un’enfasi sempre maggiore dello “sciopero di piazza” a fronte del “dialogo di lobby”.
La scelta del primo maggio aveva l’obiettivo di ricordare un evento simbolico forte e segnante, ovvero l’impiccagione di quattro operai, quattro organizzatori sindacali e quattro anarchici che il primo maggio del 1886 a Chicago organizzarono uno sciopero che sfociò nell’omicidio, da parte della polizia, di due manifestanti.
Il primo maggio è quindi un avvenimento che celebra un omicidio, avvenuto in occasione di uno sciopero, organizzato da una loggia massonica. Se aggiungiamo che, ad oggi, si festeggia qualcosa che non c’è (o meglio, che non per tutti è un diritto) e una violazione perenne all’art. 1 della Costituzione, mi domando se i sindacati debbano forse rivedere tutto l’impianto.
Si potrebbe partire dal nome…perché festa del lavoro e non festa di quelli che il lavoro lo cercano? Perché non festa di chi ci crede ancora? Perché festeggiare il lavoro e non i lavoratori..così a Piazza San Giovanni ci si entra meglio?
A pensarci bene…ora capisco le origini! L’ordine che diede inizio a tutti era elitario perché raccoglieva quelli che il lavoro ce l’avevano, quindi quei pochi fortunati! Ecco spiegato tutto! C’avevano ragione…era stato tutto previsto…
martedì 30 aprile 2013
Ce l'abbiamo fatta!
In giro per la rete, in un’ansia ormai consolidata di cyber partecipazione, ci si domanda se il governo Letta sia risolutivo, se sia realmente efficace e se possa rappresentare la chiave di volta di una situazione politica nazionale di imbarazzante stallo. Io, ovviamente, non so se il Giovane Statista sia o meno la luce che porterà il Paese alla rinascita o se sarà realmente efficace.
Di certo, questa è una soluzione, è uno sblocco, è un inizio. Ed è già tanto. Dopo ben due mesi di teatrini, manfrine, giochetti, pseudo accordi e lotte di piazza, siamo passati da una politica in potenza, ad una politica in azione. Finalmente il Parlamento è nell’operativo costituzionale del suo mandato, può promulgare leggi, proporre riforme, attuare provvedimenti.
Ora è il momento delle risposte, ed è fondamentale che arrivino presto e che siano reali, basate su esigenze strategiche e non su ritorni elettorali, che siano programmatiche, che abbiano visione, che diano sopra ogni cosa impressione di futuro. Ecco, il governo Letta ha una grande responsabilità, deve essere portatore di speranza e futuribile, deve essere considerato “duraturo”, deve avere come obiettivo il “fine mandato”. Non credo che il Paese possa permettersi un governo di scopo, e vedo nelle scelte di squadra una buona possibilità che questo accada.
Emma Bonino, Cecile Kyenge, Enrico Giovannini, Maria Chiara Carrozza sono personaggi di grande spessore tecnico e politico, nomi che danno credibilità e che rappresentano preparazione, da un lato, e senso delle istituzioni dall’altro. Loro mi piacciono molto e sono fiducioso che faranno bene, oltre che alla nazione, anche al senso di appartenenza che ultimamente, in ciascun italiano dotato di uno pseudo senso critico, ha subito qualche incrinatura.
È vero, le larghe intese sono un po’ una presa in giro, avremmo potuto tranquillamente evitare di andare al voto e fare un “governo del presidente”, ma quale altro scenario avrebbe consentito un minimo di stabilità? Come si potrebbero fare riforme sostanziali senza l’appoggio del Parlamento? Non sarebbe possibile.
Quindi, ben venga il Governo di responsabilità nazionale, da sempre strumento fondamentale per il superamento delle problematiche legate al polipolarismo italiano su base porcellum, quello si un danno evitabile.
Un Governo democristiano??? Beh, se essere portatore di istanze condivise ed operare con una maggioranza stabile è essere democristiano, allora ben venga anche il Governo democristiano.
La responsabilità di cui abbiamo bisogno in questo momento prescinde dalle bandiere e dalle ideologie e si fonda sulla concretezza, sulla pianificazione, sulla definizione di obiettivi e sulla strenue difesa del loro raggiungimento.
Auguro al nuovo premier di operare in serenità su questi temi, di mantenere coerenza e consolidare la credibilità, soprattutto nazionale. La base che permette ora sta chiedendo indietro!
Ad maiora…
Di certo, questa è una soluzione, è uno sblocco, è un inizio. Ed è già tanto. Dopo ben due mesi di teatrini, manfrine, giochetti, pseudo accordi e lotte di piazza, siamo passati da una politica in potenza, ad una politica in azione. Finalmente il Parlamento è nell’operativo costituzionale del suo mandato, può promulgare leggi, proporre riforme, attuare provvedimenti.
Ora è il momento delle risposte, ed è fondamentale che arrivino presto e che siano reali, basate su esigenze strategiche e non su ritorni elettorali, che siano programmatiche, che abbiano visione, che diano sopra ogni cosa impressione di futuro. Ecco, il governo Letta ha una grande responsabilità, deve essere portatore di speranza e futuribile, deve essere considerato “duraturo”, deve avere come obiettivo il “fine mandato”. Non credo che il Paese possa permettersi un governo di scopo, e vedo nelle scelte di squadra una buona possibilità che questo accada.
Emma Bonino, Cecile Kyenge, Enrico Giovannini, Maria Chiara Carrozza sono personaggi di grande spessore tecnico e politico, nomi che danno credibilità e che rappresentano preparazione, da un lato, e senso delle istituzioni dall’altro. Loro mi piacciono molto e sono fiducioso che faranno bene, oltre che alla nazione, anche al senso di appartenenza che ultimamente, in ciascun italiano dotato di uno pseudo senso critico, ha subito qualche incrinatura.
È vero, le larghe intese sono un po’ una presa in giro, avremmo potuto tranquillamente evitare di andare al voto e fare un “governo del presidente”, ma quale altro scenario avrebbe consentito un minimo di stabilità? Come si potrebbero fare riforme sostanziali senza l’appoggio del Parlamento? Non sarebbe possibile.
Quindi, ben venga il Governo di responsabilità nazionale, da sempre strumento fondamentale per il superamento delle problematiche legate al polipolarismo italiano su base porcellum, quello si un danno evitabile.
Un Governo democristiano??? Beh, se essere portatore di istanze condivise ed operare con una maggioranza stabile è essere democristiano, allora ben venga anche il Governo democristiano.
La responsabilità di cui abbiamo bisogno in questo momento prescinde dalle bandiere e dalle ideologie e si fonda sulla concretezza, sulla pianificazione, sulla definizione di obiettivi e sulla strenue difesa del loro raggiungimento.
Auguro al nuovo premier di operare in serenità su questi temi, di mantenere coerenza e consolidare la credibilità, soprattutto nazionale. La base che permette ora sta chiedendo indietro!
Ad maiora…
lunedì 7 maggio 2012
"La Guida e lo Scout sono amici di tutti e fratelli di ogni altra Guida e Scout", ad eccezione di quelli gay
L'articolo 4 della legge scout agesci recita così, puntando ad uniformare i propri aderenti ad un messaggio di tolleranza e fratellanza mondiale, ad un invito all'amore e all'amicizia, con opportune restrizioni però. Nell'articolo di Repubblica, in cui si raccontano gli atti di un seminario sull'omosessualità - organizzato dalla principale associazione di scout cattolici e tenuto da un prete e due psicoterapeuti - si evince una posizione a dir poco parziale e discriminatoria nei confronti degli scout e delle guide omosessuali. Il fatto stesso che la tematica sia trattata da un sacerdote, che espone quindi la posizione della Santa Sede, e da due psicoterapeuti, che approcciano l'omosessualità come se questa fosse una malattia da curare, fornisce ai destinatari (adulti educatori, quindi responsabili della formazione dei giovani) un input "parziale e inevitabilmente ideologico, che a mio avviso (Paolo Patanè) intacca profondamente quella stessa cultura del rispetto, della solidarietà e della giustizia di cui il movimento scout dovrebbe essere portatore". Il seminario prosegue vietando il coming-out per i capi ("turberebbe i giovani") e consigliando di indirizzare i ragazzi e le ragazze omosessuali verso uno psicologo.
Forti le posizioni delle principali associazioni a tutela dell'omosessualità, assente la reazione ufficiale da parte dei principali movimenti scout, che da anni eludono la questione.
Per tanti anni ho fatto parte di un movimento scout, e da esso ho tratto buona parte della mia educazione di cittadino e uomo. Ho creduto, e credo, negli ideali dello scoutismo, nell'impegno, nel coraggio, nel senso di responsabilità, nell'essere primus inter pares, nel mettersi quindi al servizio degli altri, nell'ascolto del prossimo e nell'accoglienza. Tutti insegnamenti che mi hanno fatto essere, oggi, ciò che sono, grazie ad un'esperienza che ho consigliato a molti genitori per i propri figli e che vorrei fortemente per i miei.
L'articolo però mette in luce un fattore su cui rifletto da molto, e che è stato in parte causa del mio abbandono del movimento, ovvero l'anacronismo del metodo scout e l'eccessiva vicinanza al mondo cattolico della Chiesa di Roma. Essere credente ha molti fattori positivi, essere bigotti no. Lo scoutismo dovrebbe andare oltre i rigidi dettami della religione, dovrebbe aprirsi al mondo e accettare che il mondo sia cambiato, che le persone si siano secolarizzate, ovvero abbiano diritto di vivere la propria vita al di fuori dei dogmi e delle "tradizioni".
B.P. (Lord Baden Powell of Gilwell, fondatore degli scout) diceva che obbligo morale di ogni scout è lasciare il mondo migliore di come lo ha trovato. E questa è una facoltà che tutti possono avere, anche gli scout e le guide omosessuali.
Forti le posizioni delle principali associazioni a tutela dell'omosessualità, assente la reazione ufficiale da parte dei principali movimenti scout, che da anni eludono la questione.
Per tanti anni ho fatto parte di un movimento scout, e da esso ho tratto buona parte della mia educazione di cittadino e uomo. Ho creduto, e credo, negli ideali dello scoutismo, nell'impegno, nel coraggio, nel senso di responsabilità, nell'essere primus inter pares, nel mettersi quindi al servizio degli altri, nell'ascolto del prossimo e nell'accoglienza. Tutti insegnamenti che mi hanno fatto essere, oggi, ciò che sono, grazie ad un'esperienza che ho consigliato a molti genitori per i propri figli e che vorrei fortemente per i miei.
L'articolo però mette in luce un fattore su cui rifletto da molto, e che è stato in parte causa del mio abbandono del movimento, ovvero l'anacronismo del metodo scout e l'eccessiva vicinanza al mondo cattolico della Chiesa di Roma. Essere credente ha molti fattori positivi, essere bigotti no. Lo scoutismo dovrebbe andare oltre i rigidi dettami della religione, dovrebbe aprirsi al mondo e accettare che il mondo sia cambiato, che le persone si siano secolarizzate, ovvero abbiano diritto di vivere la propria vita al di fuori dei dogmi e delle "tradizioni".
B.P. (Lord Baden Powell of Gilwell, fondatore degli scout) diceva che obbligo morale di ogni scout è lasciare il mondo migliore di come lo ha trovato. E questa è una facoltà che tutti possono avere, anche gli scout e le guide omosessuali.
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