martedì 7 maggio 2013

Auschwitz: ero il numero 220543

Un sottotitolo calzante per questo libro sarebbe potuto essere: “Il racconto di chi ha visto con i propri occhi la vergogna del mondo”.
Così definirei, in estrema sintesi, il racconto meraviglioso della drammatica esperienza di Denis Avey, caporale dell’esercito britannico catturato dai tedeschi durante la campagna africana e deportato nel campo di lavoro di Auschwitz nel 1944.
Definire meravigliosa la narrazione di un periodo oscuro della vita di un uomo potrà sembrare azzardato, a tratti offensivo della memoria di quanti non sono sopravvissuti, ma non trovo altri aggettivi per descrivere la dovizia di particolari e l’analisi lucida, a sessant’anni di distanza, di una persona che ce l’ha fatta, grazie alle sue doti di adattamento, allo spirito di rivalsa e coraggio che non l’hanno mai abbandonato e grazie a, come lui stesso dice, una grande dose di fortuna e tempismo.
Un uomo che, volontariamente, per testimoniare al mondo lo scempio e la violenza di Auschwitz, decise di sostituirsi ad un deportato ebreo e vedere con i propri occhi ciò che stava accadendo realmente.
Nell’Europa della Grande Guerra nessuno sapeva, o forse faceva finta di non sapere, quanto accadeva all’interno di quel nefasto cancello. La scritta “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi) sul cancello d’ingresso del campo ricordava in maniera beffarda, quotidianamente, il triste destino di quanti vi transitavano sotto, a cadenza regolare, mattino e sera. Questo solo per i più fortunati, ovvero per quelli che sopravvivevano alla giornata e a cui il fato concedeva un’altra notte al freddo su un tavolaccio spoglio.
Sono rimasto colpito da come questa storia sia rimasta nell’angolo più remoto del cervello e del cuore di Denis per sessant’anni, e dalla forza con cui sia esplosa, in un racconto concitato, estremamente tragico nel suo ritmo, preciso e puntuale nei dettagli e nelle connessioni storiche e geografiche.
Ancora nel 2013, i carnefici vengono assicurati alla giustizia, ancora nel 2013 i pochi superstiti fanno i conti con una soddisfazione che tarda ad arrivare, ancora nel 2013 ci sono degli sciocchi che negano quel periodo e fanno del “revisionismo” una contraddizione prima di tutto morale.
Denis Avey, alla veneranda età di 90 anni, ci riporta ad Auschwitz e ci fa rivivere quel periodo. Grazie alla sua memoria, abbiamo una testimonianza tangibile ed una responsabilità importante ci viene conferita.
Quando anche l’ultimo dei superstiti avrà trovato la pace, è nostro compito far si che, per sempre, di generazione in generazione, venga tramandato quanto accaduto.
È nostro compito trarre degli insegnamenti da Denis (e dai tanti altri nel corso della storia..Primo Levi, Shlomo Venezia solo per citarne alcuni), lezioni di coraggio, giustizia, amore verso il prossimo, imprimerle profondamente nella nostra memoria e tradurle, di valore in valore, nel nostro vivere quotidiano.

In ricordo di quanti non ce l’hanno fatta…

"Le guerre negano la memoria dissuadendoci dall’indagare sulle loro radici, finchè non si è spenta la voce di chi può raccontarle. Allora ritornano, con un altro nome e un altro volto, a distruggere quel poco che avevano risparmiato." (L’ombra del vento – Carlos Ruiz Zafón )

lunedì 6 maggio 2013

Città smart o amministratori illuminati?

Il fenomeno delle smart cities sta esplodendo. Se ne parla sempre di più, anche in contesti differenti, e cominciano a sorgere i primi esperimenti anche in Italia, finanziati da fonti straniere pubbliche/private e da piani operativi nazionali che presuppongono, quindi, una strategia in evoluzione.
Estremamente interessante e molto sfidante.
Ma cos’è realmente? Un città intelligente (smart city) indica, in senso lato, un ambiente urbano in grado di agire attivamente per migliorare la qualità della vita dei propri cittadini. Riesce a conciliare e soddisfare le esigenze dei cittadini, delle imprese e delle istituzioni, grazie anche all'impiego diffuso e innovativo delle TIC, in particolare nei campi della comunicazione, della mobilità, dell'ambiente e dell'efficienza energetica.
Secondo la definizione di wikipedia quindi, una smart city è fondamentalmente un ambiente attivo, articolato, interconnesso, in cui ciascuna componente contribuisce alla riconfigurazione in real time delle altre, che compongono il sistema.
Parole illuminanti e profonde per chi riesce a coglierne le sfumature meno evidenti. La città diventa un soggetto attivo, le strade, i palazzi che la compongono, i pali della luce, i tombini, i cestini per la raccolta dei rifiuti, tutta una serie di oggetti, apparentemente statici ed isolati, diventano sensori e rete di rilevamento.
Anche l’uomo ne fa parte. Sempre più digitale e connesso, qualunque informazione esso renda pubblica (dati sul traffico, affollamento dei mezzi pubblici, ritardi…) viene messa a fattor comune a beneficio degli altri che, per esempio, vedono riconfigurato in automatico il proprio navigatore satellitare sulla base delle informazioni condivise (traffico, semafori, condizioni stradali…). Ogni oggetto, animato o inanimato, contribuisce a migliorare la vivibilità e la sostenibilità del sistema complessivo.
Entusiasmante no? Dal mio punto di vista assolutamente si, entusiasmante e stimolante, di ampio respiro e fonte di ispirazione e studio. Michele Vianello affronta il tema da un punto di vista spesso trascurato. Nel suo Smart Cities, l’autore è tra i pochi ad esporre una metodologia di Governo dell’innovazione da destinare alle Amministrazioni e alle imprese che dall’innovazione traggono il proprio business. Il vero fulcro della questione, la leva che farà si che il fenomeno da mera accademia diventi realtà: la lungimiranza di chi governa il territorio.
Le amministrazioni pubbliche, di vari ordini e gradi, hanno una responsabilità centrale nel processo di “smartizzazione” delle proprie città. Sono le amministrazioni a dover impostare in chiave strategica il rinnovamento dei servizi, delle politiche del territorio, della collaborazione tra soggetti, sono loro insomma a dover adottare un modello di governance, attuale, rispetto ad un modello di amministrazione, ormai superato e vincolante.
L’"amministratore illuminato” è la chiave di volta per la diffusione delle smart cities, ed un processo di alfabetizzazione digitale, così come descritto dall’autore, è assolutamente fondamentale in questo processo, ancor più della banda larga e dell’automazione dei servizi.
Parlare quindi di smart cities non può quindi prescindere dal parlare di smart city manager, figura sempre più tecnica, specializzata, mentalmente avanzata, e sempre meno politicamente accattivante.
Insomma, un futuro smart presuppone una classe politica smart, senza la quale difficilmente il sogno diventerà realtà.

giovedì 2 maggio 2013

Cambiamo nome al primo maggio!

Con il 1° maggio ormai archiviato dal 2° maggio, e con esso le varie manifestazioni che si sono svolte a livello nazionale e le relative polemiche che  tutti gli anni si ripetono puntuali, stavo ragionando sulle motivazioni e sull’opportunità di questo evento, ahinoi ormai più ludico e mediatico che reale e significativo.
In un paese, l’Italia, in cui la disoccupazione (soprattutto giovanile) ha toccato percentuali incredibili , già mi sembra una bella contraddizione festeggiare qualcosa che per molti è un sogno, una chimera, un percorso ad ostacoli in cui difficilmente si vedrà il traguardo, a maggior ragione se ci si documenta rapidamente sulle origini di questo evento. Storicamente, infatti, questa festa è di per sé contradditoria.
Leggendo su wikipedia mi è venuto un po’ da ridere. Quello che da sempre, per antonomasia, è considerata la festa dei lavoratori, quindi di una classe popolare e operai oppressa dal vile capitalista, nasce in realtà ad opera del “Nobile e Sacro Ordine dei Cavalieri del Lavoro”, una sorta di massoneria americana che rifiutava gli ideali del socialismo e promuoveva quelli repubblicani americani.
A tale gruppo, si accedeva soltanto attraverso un’accurata selezione elitaria e riti di iniziazione che ne facevano un ordine segreto di rango elevato, scarsamente rappresentativo. Solo le crisi economiche devastanti, e le pressioni violente da parte delle congregazioni di minatori all’epoca molto attive, fecero si che le parole “Nobile e sacro” fossero cancellate dall’organizzazione, così come i riti di iniziazione, che permisero un allargamento forte della base e un’enfasi sempre maggiore dello “sciopero di piazza” a fronte del “dialogo di lobby”.
La scelta del primo maggio aveva l’obiettivo di ricordare un evento simbolico forte e segnante, ovvero l’impiccagione di quattro operai, quattro organizzatori sindacali e quattro anarchici che il primo maggio del 1886 a Chicago organizzarono uno sciopero che sfociò nell’omicidio, da parte della polizia, di due manifestanti.
Il primo maggio è quindi un avvenimento che celebra un omicidio, avvenuto in occasione di uno sciopero, organizzato da una loggia massonica. Se aggiungiamo che, ad oggi, si festeggia qualcosa che non c’è  (o meglio, che non per tutti è un diritto) e una violazione perenne all’art. 1 della Costituzione,  mi domando se i sindacati debbano forse rivedere tutto l’impianto.
Si potrebbe partire dal nome…perché festa del lavoro e non festa di quelli che il lavoro lo cercano? Perché non festa di chi ci crede ancora? Perché festeggiare il lavoro e non i lavoratori..così a Piazza San Giovanni ci si entra meglio?
A pensarci bene…ora capisco le origini! L’ordine che diede inizio a tutti era elitario perché raccoglieva quelli che il lavoro ce l’avevano, quindi quei pochi fortunati! Ecco spiegato tutto! C’avevano ragione…era stato tutto previsto…